Denominazione d’uso corrente dello Statuto del regno di Sardegna, emanato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848 quale «legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia». Come tale, lo S.a. restò in vigore (almeno formalmente) lungo l’intera esistenza del regno d’Italia. La promulgazione dello S.a. si colloca nell’agitato contesto politico della «primavera dei popoli», che precocemente si manifestò nella Penisola, rivelando la profonda crisi di legittimità delle monarchie assolute, ovunque incalzate dalle rivendicazioni di forme di governo costituzionale provenienti dalla società civile. A cedere per primo fu Ferdinando II di Borbone che, nel tentativo di contenere la spinta insurrezionale partita da Palermo il 12 gennaio, si affrettò a pubblicare la Costituzione del regno delle Due Sicilie. Ne seguirono l’esempio, sotto la pressione dell’opinione pubblica, Leopoldo II, Pio IX e Carlo Alberto, che all’inizio di febbraio – su suggerimento dei suoi ministri – proclamò la decisione di dotare il regno di un «compiuto sistema di governo rappresentativo» e convocò un Consiglio di conferenza a composizione straordinaria per la redazione dello Statuto. Il testo che ne scaturì ricalcava nel suo disegno normativo la Carta costituzionale francese concessa da Luigi XVIII nel 1814 e modificata in seguito alla rivoluzione del luglio 1830. Le variazioni di struttura rispetto al modello erano tese ad accentuare sul piano simbolico il primato del monarca nell’organizzazione dello Stato. Mentre la Charte anteponeva la rubrica «Droit public des Français» agli articoli concernenti le «Formes du Gouvernement du Roi», lo S.a. collocava l’elenco «Dei diritti e dei doveri dei cittadini» dopo una lunga serie di disposizioni riguardanti i poteri del re e il carattere ereditario della monarchia. A una diversa gerarchia di valori rimandava anche l’art. 1: mentre quello del testo francese sanciva il principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, quello dello S.a. dichiarava «la religione Cattolica Apostolica e Romana» quale «sola religione dello Stato». La forma di governo delineata dai legislatori piemontesi era quella della monarchia costituzionale, imperniata sulle prerogative potestative del sovrano e sulla condivisione del potere legislativo tra organi distinti: il sovrano medesimo, il Senato e la Camera dei deputati. Solo quest’ultima era «elettiva» e i suoi membri erano «scelti dai Collegii Elettorali conformemente alla legge», cui lo S.a. rimetteva la fissazione dei requisiti soggettivi per l’accesso ai diritti politici. I senatori, invece, erano nominati dal re, che poteva elevare a tale carica vitalizia un numero «non limitato» di persone appartenenti a una delle 21 categorie elencate dal testo statutario (vescovi, ambasciatori, ministri, deputati di lungo corso, alti magistrati, grandi contribuenti ecc.). Oltre a partecipare all’esercizio del potere legislativo insieme alle due camere, il monarca – «Capo Supremo dello Stato» – deteneva in via esclusiva il potere esecutivo, comprensivo del comando delle forze armate e della direzione della politica estera. A lui spettava altresì la nomina di tutte le cariche dello Stato, a partire dai «suoi Ministri», revocabili a sua discrezione, sino ai giudici («inamovibili dopo tre anni di esercizio»), che «in suo Nome» amministravano la giustizia. Tra le costituzioni promulgate nel 1848 negli Stati della Penisola, solo lo S.a. sopravvisse all’ondata reazionaria che ripristinò l’ordine assolutistico dal lombardo-veneto al napoletano. Così, durante gli anni Cinquanta, il Piemonte sabaudo divenne il punto di riferimento di vasti settori del movimento patriottico italiano. La dinamica della rappresentanza parlamentare, producendo la formazione di schieramenti assembleari ideologicamente connotati e conducendo all’affermazione di personalità eminenti vocate alla leadership, tese ad allontanare la vita politica e istituzionale subalpina dalle direttrici organizzative prescritte dallo S. albertino. La centralità del monarca fu appannata da una prassi costituzionale improntata alla logica del parlamentarismo, che spostò l’esercizio del potere esecutivo dal capo dello Stato a un governo collegiale, presieduto da un premier dotato di credito presso la maggioranza dei deputati: dipendente, quindi, non dall’arbitrio del sovrano bensì dalla fiducia della Camera. Già risolutamente avviato da Cavour, questo processo di parlamentarizzazione della forma di governo si rafforzò nei decenni successivi all’unità d’Italia, senza però mai giungere a un compiuto consolidamento formale: il ritorno alla lettera dello S.a. e ai «governi del re» rimase una prospettiva politica sempre esperibile ed episodicamente invocata, sebbene l’ampliamento del suffragio e la nascita dei partiti di massa spingessero in direzione opposta. Negli anni dell’edificazione del regime fascista, l’organizzazione dei poteri dello Stato e la fisionomia degli organi costituzionali stabilite dallo S.a. subirono una trasformazione radicale di segno autoritario e antiparlamentare. Per via legislativa furono incrementate le attribuzioni e le prerogative del «capo del governo», fu smantellata la garanzia istituzionale della divisione dei poteri, fu sostanzialmente abolita la rappresentanza politica. Anche le libertà civili riconosciute dallo S.a. furono progressivamente travolte dalla legislazione fascista, che culminò nella cancellazione dell’uguaglianza giuridica con le discriminazioni razziste a danno degli ebrei. Questo svuotamento del significato normativo dello S.a. palesa l’intrinseca fragilità di una costituzione sprovvista di garanzie: la mancata statuizione di un procedimento speciale di revisione costituzionale e di un organo di controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi consentì al potere politico di legiferare in piena e assoluta discrezionalità. Annichilito dal fascismo, lo S.a. seguì, tra il 1944 e il 1946, il destino della monarchia.
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