CHE COSA S’INTENDE PER “RIVOLUZIONE SCIENTIFICA” Con l’espressione “rivoluzione scientifica” si è soliti indicare quel periodo della storia europea, compreso fra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo, durante il quale furono poste le basi concettuali, metodologiche e istituzionali della scienza moderna. Sebbene tuttavia tale espressione sia ormai di uso comune, il problema di determinare esattamente il periodo in questione continua a suscitare non meno disaccordo di quello connesso alla precisa natura di questa rivoluzione. Il fatto che la rivoluzione scientifica si presti a varie e divergenti interpretazioni, indica in modo inequivoco che essa è, principalmente, una categoria storiografica: un concetto cioè che assolve a una funzione meramente descrittiva e denotativa, e che, al pari di altre categorie (Medioevo, Rinascimento, Illuminismo, ecc.), serve a designare determinate vicende del passato. Nella fattispecie, tutta una serie di eventi, che si sviluppano su di una molteplicità di piani – ma che, a diverso titolo, hanno contribuito a cambiare il modo di pensare e di vedere il mondo, offrendo un’immagine della natura e dell’uomo, nonché del loro rapporto, nuova e diversa rispetto alle epoche precedenti –, concorre a definire quell’oggetto specifico che è appunto la rivoluzione scientifica, da cui è nata la scienza moderna. Il concetto di “rivoluzione scientifica” si configura dunque come un termine di comodo, convenzionale (e in certa misura quindi arbitrario), di cui si servono gli storici per indicare quella complessa realtà storica denominata scienza moderna. Ciò, tuttavia, non significa che esso sia un frutto della loro immaginazione, qualcosa insomma che non trova alcun riscontro nei fatti reali. È indubbio, infatti, che fra la metà del 1500 e la fine del 1700 giunsero a maturazione idee e temi, indissolubilmente legati alla scienza moderna, che fecero sì che il mondo cambiasse aspetto, fosse cioè percepito e conosciuto in modo nuovo, tanto da non apparire più riconoscibile alle generazioni successive. Da questo punto di vista, il concetto di rivoluzione scientifica può senz’altro essere considerato come un reale processo di radicale mutamento. E se si intende comprendere la natura e le cause di questo profondo cambiamento, occorre analizzare le 2 questioni e i problemi con cui si confrontarono i principali protagonisti della scienza moderna. 1. LA MATEMATIZZAZIONE DELLA NATURA: L’ASTRONOMIA DI COPERNICO La matematizzazione della natura è stata vista come una delle caratteristiche più significative e importanti della rivoluzione scientifica. L’idea di una natura concepita in termini matematici viene solitamente ricondotta al costituirsi di una prospettiva metafisica diversa da quella che aveva dominato la cultura medievale. A determinare questo mutamento di prospettiva sarebbero stati due ordini di fattori, peraltro strettamente connessi alla profonda trasformazione intellettuale introdotta dall’umanesimo: 1) la fine dell’autorità aristotelica, su cui si fondava tutta la riflessione filosofico-scientifica della scolastica; 2) la rinascita della tradizione platonico-pitagorica. Il trionfo della metafisica platonicopitagorica avrebbe quindi permesso l’affermarsi di una visione quantitativa della natura, di un cosmo cioè costruito secondo i principi dell’ordine matematico, impensabile all’interno delle categorie concettuali dell’aristotelismo. Più corrispondente alla realtà storica si rivela però un altro modo di vedere la questione: che consiste nel porre l’accento piuttosto sul diverso statuto epistemologico che la matematica inizia ad acquisire alle origini della scienza moderna. Ciò che risulta decisivo è infatti il mutato atteggiamento circa l’applicazione della matematica ai fenomeni naturali. Durante la rivoluzione scientifica, a un atteggiamento strumentalistico, predominante nei secoli precedenti, ne subentra uno più marcatamente realistico. Il ruolo proprio della matematica quindi non è quello, meramente ipotetico, di fornire gli strumenti per facilitare i calcoli e prevedere i fenomeni, come veniva inteso in passato, ma quello di rivelare e descrivere la natura reale delle cose. L’adozione di un punto di vista così decisamente realistico si manifesta, con tutto il suo vigore, nell’astronomia di Niccolò Copernico (1473-1543). Per una lunga e consolidata tradizione risalente all’antichità, l’astronomia rientrava nelle cosiddette “scienze miste”, era cioè composta da una parte matematica e da una parte fisica. Il compito dell’astronomo consisteva pertanto nel conciliare le costruzioni matematiche, tramite cui si calcolavano i moti dei pianeti, con le spiegazioni fisiche circa la causa del moto dei pianeti, della loro composizione, del motivo per cui occupano un determinato spazio. Verso la fine dell’antichità, però, le difficoltà di unificare in un solo sistema queste due esigenze, portarono a una netta separazione, che si 3 sarebbe sempre più accentuata, fra astronomia fisica e astronomia matematica. Nella cosmologia aristotelica, il mondo era concepito come un grande sistema di sfere concentriche al cui centro, immobile, si trovava la Terra. A partire dalla sfera della Luna, fino al limite esterno della sfera delle stelle fisse, che racchiudeva il cosmo, i corpi erano composti di un quinto elemento, l’etere, che, a differenza dei quattro elementi terrestri, era ingenerabile, incorruttibile e soggetto soltanto a un tipo di movimento, quello circolare uniforme. I pianeti e le stelle erano incastonati in grandi sfere, anch’esse di etere, che ruotavano intorno al centro del cosmo, la Terra. Sebbene una tale rappresentazione dell’universo potesse apparire suggestiva, in realtà aveva limiti notevoli, che impedivano di spiegare diversi fenomeni comuni, come, ad esempio, la variazione della luminosità apparente dei pianeti. Nel tentativo di rendere conto di questi fenomeni, inspiegabili nella cosmologia aristotelica, i tardi astronomi greci escogitarono vari sistemi, il più importante dei quali fu formulato da Tolomeo nel II secolo d. C. L’opera in cui Tolomeo descriveva la sua teoria, l’Almagesto, avrebbe dominato incontrastata il pensiero astronomico occidentale, almeno nel suo aspetto matematico, fino all’epoca di Copernico. Tolomeo si serviva di una tecnica matematica in base alla quale ogni pianeta si muoveva di moto uniforme su un piccolo cerchio (l’epiciclo), il cui centro a sua volta si muoveva, sempre di moto uniforme, su un cerchio più grande (il deferente).Tale modello era in grado di fornire una descrizione alquanto accurata delle variazioni sia di velocità sia di luminosità dei pianeti. Rimaneva, però, un problema: confrontando il moto previsto dal modello epiciclo-deferente con l’osservazione effettiva, si riscontrava che non sempre il pianeta era colto nella posizione esatta prevista dal modello teorico. Tolomeo aveva pertanto escogitato un altro stratagemma matematico, l’equante: il centro di un epiciclo si muoveva uniformemente non intorno al centro del deferente o a quello della Terra, ma intorno a un terzo punto, l’equante, scelto precisamente per riprodurre la velocità apparentemente non uniforme del pianeta. Sebbene Tolomeo fosse un realista, fosse cioè convinto che i modelli matematici da lui impiegati potessero essere ricondotti a strutture fisiche effettive, vere e proprie componenti reali dell’universo, la sua teoria planetaria finì con l’essere considerata un sistema geometrico ipotetico, del tutto incompatibile con il sistema cosmologico e fisico di Aristotele. Già a partire dal VI secolo d. C., e poi per tutto il Medioevo, 4 diventò quindi prassi comune distinguere fra un’astronomia fisica, il cui obiettivo consisteva nel descrivere gli eventi reali, e un’astronomia matematica, meramente calcolistica e ipotetica, che serviva a rendere ragione dei fenomeni osservati, cioè a “salvare le apparenze”. Il possibile conflitto fra la parte matematica e quella fisica dell’astronomia era così risolto in un modo alquanto ingegnoso, ossia tenendo ben separati i principi di queste due discipline. All’epoca di Copernico, i termini della questione erano sostanzialmente immutati: l’astronomia rimaneva un campo di attività per i matematici, e non aveva ancora nulla a che vedere con la cosmologia o la fisica dei corpi celesti. Un fatto, però, era certo: il millenario sistema astronomico di Tolomeo, su cui si basava l’immagine dell’universo che Copernico si trovò di fronte, mostrava ormai i suoi limiti, risultando sempre più incapace di conciliare con sufficiente precisione le osservazioni empiriche con i calcoli. Il limite senz’altro più vistoso e imbarazzante della teoria tolemaica concerneva la sua incapacità di accordare l’anno solare con l’anno lunare, da cui discendeva l’impossibilità di predire con esattezza la caduta delle feste consacrate, come la Pasqua. L’esigenza di risolvere questo problema, che aveva a lungo affannato la Chiesa, fu indubbiammente, insieme ad altre, una delle motivazioni che spinsero Copernico a pensare a un nuovo sistema astronomico. Quando, infatti, nel 1514 il problema della riforma del calendario fu portato dinanzi al Concilio lateranense, Copernico, invitato a dare il suo parere in merito, aveva suggerito di non intraprendere alcuna determinazione, giacché la definitiva soluzione del problema richiedeva, in realtà, un approfondito studio dei moti del Sole e della Luna, ovvero una completa riforma della teoria astronomica. Copernico, che di professione faceva il canonico, nel tempo libero si dedicò appunto alla riforma dell’astronomia. Il risultato fu l’elaborazione di una nuova teoria astronomica, che trasferiva il centro dei moti planetari dalla Terra al Sole. Il Sole diventava così il corpo centrale attorno al quale ruotavano tutti i pianeti, di cui adesso faceva parte anche la Terra. Con la sua teoria Copernico non solo rovesciava il vecchio sistema del mondo, ma forniva allo stesso tempo un modello con requisiti di completezza e praticità pari a quello elaborato da Tolomeo e dai suoi successori e commentatori medievali. Il sistema di Copernico permetteva infatti di prevedere e calcolare i movimenti celesti osservabili con la stessa efficacia operativa del sistema precedente. La nuova cosmologia eliocentrica, sebbene abbozzata in un breve trattato (il Commentariolus, composto probabilmente poco dopo il 1510 e 5 diffuso in poche copie manoscritte), venne esposta in extenso nel De revolutionibus orbium coelestium, pubblicata nel 1543, lo stesso anno della morte del suo autore. Il De revolutionibus rappresenta, senza alcun dubbio, il lavoro scientifico più importante di tutta la vita di Copernico, quello in cui si trova compendiato, in forma compiuta e interamente sviluppata, il suo sistema astronomico. I motivi che indussero Copernico a elaborare una nuova astronomia, come si è detto, nascevano dalla constatazione che il modello matematico vigente, quello tolemaico, non era più in accordo con i fenomeni osservabili. L’obiettivo primario di Copernico, pertanto, fu quello di rielaborare i vecchi dati che aveva a disposizione in un nuovo modello matematico e cosmologico. Da questo punto di vista, ciò che caratterizza l’opera copernicana non è tanto l’apporto di nuovi dati, quanto piuttosto l’elaborazione di una nuova teoria. Si tratta quindi di un sistema cosmologico nuovo fondato sui medesimi dati dell’astronomia tolemaica. Copernico, inoltre, nella propria cosmologia accoglie non pochi elementi della tradizione: la realtà materiale delle sfere cristalline (allo stesso modo di Aristotele, egli crede infatti che i pianeti siano incastonati in grandi sfere trasparenti e che ruotino come diamanti inseriti in un anello); l’idea di un cosmo perfettamente sferico e finito, racchiuso nella sfera delle stelle fisse, sebbene con un diametro maggiore di quello tolemaico. Anche per quanto concerne l’impiego delle tecniche matematiche, Copernico rimane un tolemaico, si avvale cioè degli strumenti matematici elaborati dall’astronomo alessandrino. E se si rifiuta di utilizzare il punto equante, lo fa perché è convinto che esso violi l’antico assioma che i moti celesti devono essere perfettamente circolari e uniformi; ciò, tuttavia, non gli impedisce di servirsi di eccentrici, epicicli e deferenti per risolvere gli stessi problemi di Tolomeo. Copernico, infine, per giustificare il proprio sistema astronomico non si avvale quasi mai di argomenti ricavati dall’esperienza; le tesi più significative del De revolutionibus, il moto dei pianeti e l’immobilità del Sole, si basano su convinzioni di natura estetica, morale e religiosa. I pianeti ruotano semplicemente perché sono sferici; a determinare il loro moto circolare è la loro peculiare forma geometrica: la mobilità propria della sfera consiste infatti, secondo il vecchio assioma platonicopitagorico, nel ruotare in circolo. La centralità e immobilità del Sole deriva invece dalla sua natura, che Copernico, sulla base di temi attinti alla letteratura solare del neoplatonismo rinascimentale e alla tradizione ermetica, considera più nobile e divina degli altri corpi celesti. Il Sole si trova in una posizione centrale ed è il primo in “dignità” per la funzione 6 che a esso viene attribuita: quella di illuminare e rischiarare il mondo, al quale dà la vita e il movimento. Sulla base di considerazioni di questo tipo, è prevalsa la tendenza a considerare Copernico non come un rivoluzionario, bensì come un riformatore moderato, un conservatore. È stato infatti sostenuto che il sistema copernicano, in realtà, non rappresentava il superamento della vecchia cosmologia, ma una sua modificazione. Il De revolutionibus rimarrebbe cioè nell’ambito dell’antica tradizione astronomica e cosmologica, poiché ne implicava la medesima struttura, operando soltanto un’unica variante: lo scambio di ruoli fra la Terra e il Sole. In tal senso, il De revolutionibus più che un testo rivoluzionario sarebbe piuttosto un testo che provoca una rivoluzione. La sua portata rivoluzionaria risiederebbe, da ultimo, negli esiti futuri che, non previsti dallo stesso Copernico, avrebbero determinato, ad opera di altri pensatori (Keplero, Galilei e Newton), una rottura completa e radicale con la tradizione antica. Senza alcun dubbio, Copernico, ma questo è fin troppo ovvio, fu uomo del suo tempo, e condivise quindi le prospettive di fondo del vecchio mondo intellettuale nel quale era nato e nel quale si era formato. Non deve stupire, di conseguenza, che egli fosse un riformatore interessato alla conservazione, che mirava a riportare in armonia la filosofia naturale e l’astronomia matematica sulla base del principio assoluto che tutti i moti sono uniformi e circolari, dimodoché tutte le sfere devono ruotare in modo uniforme attorno ai loro centri. È altresì vero, tuttavia, che Copernico deve essere visto come un innovatore radicale: egli infatti sostiene che la Terra è un pianeta come gli altri, richiamandosi alle argomentazioni della parte matematica dell’astronomia. In questo modo, Copernico attribuisce alla geometria un potere euristico, quello di conoscere la realtà fisica, che trasforma il ruolo stesso dell’astronomo. Il compito dell’astronomo, secondo Copernico, non consiste nel fornire ipotesi matematiche atte a “salvare i fenomeni”, ma nel ricercare la vera struttura dell’universo. Con Copernico, quindi, l’astronomo inizia ad avere un nuovo ruolo: quello di filosofo naturale. Le autentiche intenzioni di Copernico, tuttavia, finirono con l’essere tradite dalle eccezionali circostanze che accompagnarono la pubblicazione del De revolutionibus. Benché infatti Copernico avesse ultimato la stesura dell’opera già nel 1531, egli ne acconsentì la pubblicazione soltanto al termine della sua vita. A convincerlo fu un giovane docente di matematica, Georg Joachim Rheticus (1514-1572), che andò a trovare Copernico dall’Università di Wittenberg, il centro accademico della Riforma luterana. Rheticus ebbe il permesso sia di 7 pubblicare una versione preliminare della teoria eliocentrica (la Narratio prima, apparsa nel 1540), sia di curare la stampa del De revolutionibus. Non avendo però il tempo necessario per sovrintendere al lavoro, affidò la cura editoriale dell’opera a un suo collega luterano, Andreas Osiander (1498-1552). Quest’ultimo, senza l’autorizzazione di Copernico né di Rheticus, aggiunse al testo un’anonima prefazione, intitolata Al lettore sulle ipotesi di quest’opera, in cui affermava il carattere strettamente ipotetico della nuova teoria, come di tutte le teorie astronomiche in generale. L’originaria posizione di Copernico, però, appare, senza possibilità di equivoci, nella lettera dedicatoria al papa Paolo III premessa al De revolutionibus, in cui presenta appunto il proprio sistema non come una ipotesi fra le tante possibili, ma come la vera rappresentazione dell’universo. E non è tutto. Copernico, infatti, non solo colloca la Terra fra gli altri pianeti, e quindi in palese contrasto con gli insegnamenti della fisica aristotelica, delle sacre scritture e del senso comune, ma fa ciò sulla base di argomenti che la maggior parte dei suoi contemporanei consideravano illegittimi. Per quanto il moto della Terra possa apparire contrario alla filosofia naturale, esso, insiste Copernico, deve essere vero, perché lo esige la matematica. Per l’epoca in cui visse Copernico, un’affermazione del genere era sicuramente rivoluzionaria. Non va infine dimenticato che l’ammissione del moto terrestre, oltre a comportare un rovesciamento della struttura dell’astronomia e della fisica, poneva una serie di domande inquietanti circa il posto e il significato dell’uomo nell’universo. La distruzione della plurisecolare immagine dell’universo scalzava infatti l’uomo dalla sua posizione centrale e lo collocava su un pianeta periferico in movimento; per la prima volta, quindi, l’uomo non era più al centro dell’universo né, tanto meno, il cosmo ordinato attorno a lui.
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